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Coordinated by Filip STANCIU

 

Machiavelli in assenza di Machiavelli:

la fondazione della politica moderna in Rodolfo De Mattei

 

Laura Mitarotondo

Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

 

Abstract: This paper focuses on the critical interpretation of Machiavelli which transpires, between the 40’s and 70’s of the 20th Century, from the works of Rodolfo De Mattei, a historian of political thought. The aim is to pay tribute to a specific body of study and research centered around Machiavelli and the separation between ethics and politics which emerges from his works, recognizing the importance of political cultures which, between pre-Machiavellism and anti-Machiavellism, made a significant contribution to the reconsideration of the genesis of politics modernity. De Mattei’s interpretation aims at keeping Machiavelli’s contribution to the renewal, in the Modern sense, of political language in the right proportion with the need for giving back to politics a solid foundation of values, reconsidering the relationship between means and goals, reaching for a universalistic destination of politics, conceived as a precipitate of man as a person in history and society.

Keywords: Machiavelli, Machiavellism, ethics, politics, history.

1. CONTRO MACHIAVELLI: IL RISARCIMENTO DELL’UOMO SULLA POLITICA

 

Pur non avendo mai dedicato uno studio autonomo ed integrale alla figura e all’opera del Segretario Fiorentino, lo storico del pensiero politico Rodolfo De Mattei dialoga ininterrottamente con Machiavelli nel corso di quasi tutta la sua riflessione critica[1]. Egli rappresenta un ineludibile termine di confronto dal quale lo studioso siciliano muove per addentrarsi nella modernità della storia del pensiero politico e per valorizzare, anche attraverso una dinamica di chiaroscuri, gli autori ai quali riserva maggiore attenzione nelle sue ricerche[2]. Questi ultimi sono sempre distanti da Machiavelli e gli vengono opposti dialetticamente, quasi rappresentassero un antidoto alla patologia politica di cui il Segretario fiorentino è portatore. Machiavelli, del resto, è protagonista silenzioso di molti scritti di De Mattei che, conservando una costante ritrosia verso le monografie organiche, predilige le raccolte di saggi che raccontano di grandi affreschi storico-politici, talvolta anche di singoli autori e che, negli anni, egli sottopone a revisioni, aggiunte e continue limature.[3]

Dedicare attenzione al modo in cui De Mattei si rivolge criticamente a Machiavelli equivale principalmente a riconoscere l’importanza del contributo dello studioso siciliano al corredo della smisurata bibliografia machiavelliana, valorizzando le sue ricerche sul pensiero politico della Controriforma, sulla trattatistica della ragion di Stato e sulla tradizione del machiavellismo italiano ed europeo.[4]

Nel problematizzare la figura e l’opera di Machiavelli, De Mattei testimonia gli orientamenti di una parte dell’intellettualità di formazione cattolica, istruita al linguaggio della storia più che della filosofia, impegnata nel cuore del Novecento – e finanche nelle complesse articolazioni della cultura fascista, alla quale De Mattei partecipò con riconosciuta vivacità –, a realizzare una faticosa conciliazione fra l’eredità più verace dell’opera di Machiavelli e la deriva del machiavellismo. Il suo punto di vista critico, oltretutto, matura una traccia scientifica peculiare proprio negli anni Trenta, in una congiuntura estremamente ricca di contributi per la storia della ricezione e attualizzazione di Machiavelli, e nella quale il Fascismo consolida il proprio consenso anche attraverso un’iniziativa culturale e ideologica che tiene stretti culto e memoria della nazione, promuovendo una copiosa galleria di autori della tradizione civile nazionale a precursori dello Stato fascista.[5]

Dai modi in cui filtra la figura di Machiavelli nelle scritture di De Mattei, composte fra gli anni Venti e Trenta, e poi dalla sua presenza sempre più incisiva nei saggi venuti nel dopoguerra, emerge lo scrupolo dello studioso siciliano di collocarsi in un territorio critico distinto rispetto a quello dei maggiori indirizzi esegetici del Ventennio. Il Machiavelli di De Mattei non passa per le filosofie idealistiche, e sfugge alla dimensione totalitaria dello Stato etico che piega la cultura a forme di dominio o la traduce nel precipitato di una volontà decidente. Da questa sua tensione etica verso Machiavelli e il machiavellismo risulta la confutazione del carattere contingente della politica, la rivelazione della sua fragilità, figlia della storia, e si afferma una domanda verso una politica che possa restaurare la soggettività valutatrice dell’uomo e la sua fondazione su valori universali.

L’intenzione di De Mattei è di mettere in discussione Machiavelli dall’interno, dopo averne studiato approfonditamente le opere, per contraddire l’elemento cardine e costante del suo pensiero, rappresentato dalla «netta separazione della politica dalla morale»[6]. Fondamentale sarà riconoscere che gli argomenti del suo antimachiavellismo – che non è mai disconoscimento dell’importanza storica e politica del Fiorentino – tendono a ridimensionare il profilo dell’iniziatore di una moderna scienza della politica. E con Machiavelli, De Mattei condanna quel machiavellismo divenuto necessario arsenale di tecniche della politica, e delle culture civili del XVII secolo, che Croce descriveva come «un ordine di considerazioni e un corpo di precetti dei quali non si poteva far di meno, perché dettati dalla necessità delle cose e chiaramente conformi alla pratica universale»[7]. Lo studio di una densa costellazione di autori e scritture della tradizione secentesca dischiude, del resto, all’attenzione di De Mattei la vitalità del Fiorentino, autore imprescindibile nei linguaggi della politica moderna presso quanti avvertivano il problema del potere e dello Stato[8].

Tuttavia, egli argomenta criticamente la sua distanza da Machiavelli muovendo certamente dalla ricerca storica, ma anche da una specifica domanda rivolta alla politica. E nel caso del complesso rapporto con il Segretario fiorentino, ripreso in queste pagine, è possibile riconoscere nella sua obiezione un atteggiamento paradigmatico, fondato sulla rivendicazione di una visione della politica costruita intorno al valore dell’uomo e ad una società radicata in un sistema etico di relazioni.

La sua avversione ideologica ed emotiva viene espressa attraverso un percorso di critica e di storia del pensiero civile, attraverso la scelta di autori che contrastano profondamente con Machiavelli, perché manifestano una differente visione della politica, e sono fautori di una saldatura fra il ruolo dell’individuo nella polis e la sua dimensione spirituale. In questo senso, De Mattei è un pioniere del ritorno alla politica umanizzata e atteggiata eticamente. Egli riserva, pertanto, una parte cospicua delle sue ricerche alla tradizione classica e umanistica, alle letterature tardo antiche, avendo riconosciuto in quella ricca cultura dell’uomo, una prima manifestazione della dimensione etica alla quale richiamare ordine e potere. La sua è una visione della politica cadenzata nelle forme della vita civile, ma anche pensata e agìta in assenza di un vincolante riferimento teologico che, tuttavia, è sotteso eticamente alla costruzione dell’uomo nel suo tratto identitario più alto e connaturato all’idea dell’uomo-persona, moralmente responsabile delle sue azioni.

Per questa ragione, De Mattei considera il premachiavellismo tema nevralgico nella critica a Machiavelli, da pensarsi in uno stretto rapporto con l’antimachiavellismo, studiato analiticamente nello spettro delle culture politiche controriformiste e distinto fra un antimachiavellismo di maniera, e un atteggiamento di avversione a Machiavelli, rappresentato da un «dissenso erudito alieno da tendenziosità»[9]. Si pensi, a riguardo, alle ricerche su Scipione Ammirato, l’autore al quale De Mattei ricorre per additare una pagina di «responsabile antimachiavellismo»[10], fondato sulla decostruzione delle teorie storiche di Machiavelli, a partire dal modo in cui viene ripreso Tito Livio e dalla conseguente torsione interpretativa. 

Da questo contesto dialettico, lo studioso siciliano avrebbe ricavato alcuni argomenti forti a sostegno della critica al Fiorentino, poi confluiti in una delle sue più interessanti raccolte di saggi, intitolata Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo. Sono pagine in cui si avverte distintamente la premura di De Mattei nel dotarsi sia di strumenti scientifici (scritture e fonti), sia di un metodo rigoroso per riconoscere i limiti dell’antimachiavellismo di scuola e contrastare con solide argomentazioni i fondamenti della riflessione di Machiavelli:

“Antimachiavellismo» implica un atteggiamento polemico di natura preconcetta e tendenziosa; e, senza dubbio, si ebbe nei secoli XVI e XVII, tutta una folta letteratura in tal senso. Letteratura che rispose, in modo più o meno manifesto, sia ad una consegna trasmessa dall’alto, sia ad interessi contingenti, sia al solito conformismo che è connotato comune a tutti i tempi. «Antimachiavellismo», dunque, di maniera e di moda. «Antimachiavellismo» facilmente riconoscibile: vuoi per il suo accento sgraziato, vuoi per la ristrettezza del suo angolo visuale, vuoi per la sommarietà dei suoi processi e delle sue esecuzioni”.[11] 

Per confutare la dottrina machiavelliana, De Mattei, dunque, pratica principalmente due strade, ispirate ad un comune atteggiamento metodologico consistente nell’analisi insistita, e a tratti polemica, di ciò che una larghissima parte di studiosi e lettori ha assunto in maniera quasi dogmatica, ovvero la tesi che da Machiavelli nasca una moderna teoria della politica, che nel suo messaggio si celi il quid novi della politica. Per altro verso, lo studioso siciliano rigetta l’idea che sia agevole condannare e disconoscere il contributo del Fiorentino attraverso valutazioni sommarie e in assenza di riscontri testuali. Da un lato, dunque, De Mattei ridimensiona il dato della riconosciuta originalità dell’autore del Principe; il suo ricorso al concetto del premachiavellismo, fuori dalla logica antistorica del precorrimento, disconosciuta in più occasioni, mira a dare completa visibilità a temi e autori di una cultura civile che viene prima di Machiavelli. Attraverso i protagonisti di questo retroterra, è possibile dimostrare la preesistenza di temi e motivi consacrati come tipici della riflessione di Machiavelli in momenti e linguaggi di una tradizione troppo a lungo costretta al limite di una riduttiva dipendenza da ciò che sarebbe venuto poi, e della quale viene ormai riconosciuta l’autonomia e la maturità del contributo.

Dall’altro lato, l’antimachiavellismo “preconcetto” rappresenta il livello della critica da esorcizzare se si vuole discutere con efficacia il contenuto più profondo dell’opera di Machiavelli. De Mattei indaga questa modalità dell’antimachiavellismo per scoprirne le fragilità e l’inconsistenza del giudizio, convinto che per criticare quel “sistema” e offrirne una lettura capace di rilevarne con schiettezza i limiti, si debba svelare l’approssimazione di buona parte della letteratura antimachiavelliana. È una letteratura che mina l’opposizione al Fiorentino perché ne offusca una conoscenza più minuziosa, impoverisce il dibattito teorico e lo appiattisce, senza riconoscere la profonda contraddizione di culture politiche da sempre incerte fra attrazione e repulsione verso Machiavelli. Secondo De Mattei, la battaglia è persa se non viene sviluppato epistemologicamente il conflitto fra etica e politica, se non viene approfondito il limite più vistoso dell’edificio teorico machiavelliano, rappresentato dall’assenza della dimensione spirituale nella costituzione della vita civile. A fondamento di questa replica significativa al Segretario fiorentino è l’idea che la politica non possa costituirsi da sola, che ne vada respinta la pretesa autonomia e sanato il divario fra l’uomo e le regole della costituzione della societas.

Sui rischi della proliferazione della pratica del machiavellismo, dilagante nelle pagine di una sempre più affollata e ansiosa pubblicistica demolitiva, De Mattei chiarisce:

“Anzi, si potrebbe asserire che è proprio in siffatte pagine di critica al Machiavelli che il magistero di Machiavelli si afferma: giacché è proprio in nome del metodo […] instaurato dal Segretario fiorentino, che la confutazione viene esercitata. L’incriminazione ufficiale, gravante sul Machiavelli avrà magari esercitato il suo pungolo; ma andrà comunque riconosciuto che tale incriminazione non influisce in modo decisivo sul tono e sul metro dell’analisi critica. […]. Né, peraltro, è infrequente leggere tra le righe, o nelle stesse righe, del confutatore un sincero apprezzamento dell’autore confutato”.[12]

Il premachiavellismo, dunque, da intendersi non solo come indagine sulla letteratura politica precedente Machiavelli, è un argomento importante nella letteratura dematteiana e da pensarsi in stretto rapporto con l’analisi critica dell’antimachiavellismo.

Sarebbe necessario, tuttavia, cercare di dare un significato quanto più specifico possibile all’uso del termine machiavellismo, quando si parla di un periodo precedente Machiavelli. Preliminarmente a questa definizione esiste una domanda: come è possibile parlare di machiavellismo prima di Machiavelli senza incorrere in un paradosso storico? Che cosa, dunque, può essere legittimamente definito machiavelliano in assenza di Machiavelli? In verità, pur nella sua polisemica complessità, il machiavellismo si configura come una categoria ormai in uso nella storia del pensiero politico e tale da trattenere una innumerevole serie di sfumature, tutte inevitabilmente legate alla vicenda della ricezione e circolazione dell’opera del Segretario fiorentino, e al perenne confronto fra l’approccio storicizzante e quello attualizzante. Al contrario, il machiavellismo prima di Machiavelli, è forse ciò che De Mattei aveva classificato come indirizzo peculiare del comportamento politico, un modo di agire e di pensare nel campo semantico e pratico del politico, che si costituisce prima di Machiavelli, ma al quale l’autore del Principe imprime un sigillo, assegna una paternità a posteriori.

Il machiavellismo e l’antimachiavellismo sono categorie nate nel corpo della disciplina della storia del pensiero politico e potremmo stimare che esse rappresentino modi diversi di reagire all’opera di Machiavelli; entrambe però sono dentro la storia, ovvero seguono una scansione progressiva che ha in Machiavelli il suo punto di partenza.

Nelle pagine che seguono, e attraverso alcuni studi di Rodolfo De Mattei, si intende dimostrare che il premachiavellismo costituisce una delle più efficaci forme di ripensamento critico dell’opera di Machiavelli.

Sottrarre, infatti, al Fiorentino il ruolo di fondatore del lessico politico della modernità, riconoscendo tracce del suo pensiero in autori e testi di una stagione culturale precedente, equivale, almeno in parte, ad indebolire l’originalità della sua riflessione politica e, comunque, ad assegnare autonomia scientifica ad una tradizione presso la quale aveva già preso vita un patrimonio di concetti, divenuti poi machiavelliani.[13]

 

2. PRIMA E DOPO MACHIAVELLI: L’ESORDIO DELLA POLITICA PER RODOLFO DE MATTEI

Il corredo degli autori maggiormente presenti negli studi di De Mattei – fra i quali spiccano Petrarca, Campanella, Botero, Ammirato – costituisce un fondamentale apparato critico al quale rapportare Machiavelli, in quanto pensatore emblematico di un nuovo inizio nella tradizione politica della modernità. Alla base delle argomentazioni dello studioso siciliano è la convinzione che il modello politico machiavelliano sia fondato sulla necessità, intesa anche come esercizio della tecnica e della forza piegate alla contingenza, e che l’azione del principe non sia ispirata da una misura morale più alta, specchio di un sistema eterno di valori.

Esistono per De Mattei alcuni argomenti, ricorrenti nella cultura del XV secolo, da considerarsi caratteristici di quella torsione della vita civile, nella sua essenza di attività costruita e pensata intorno alla città dell’uomo, che nella riflessione del Segretario fiorentino determinano il ritmo tipizzante della politica in quanto infrazione ed eccezione. Si tratta di temi e motivi che risentono di una stagione matura per recepire gli effetti di un avviato processo di secolarizzazione, e consentire ad una grammatica dell’autonomia della politica.

Le considerazioni di De Mattei sul premachiavellismo acquistano una specifica articolazione e diramazione concettuale a partire dall’individuazione di alcuni nuclei tematici, caratteristici del lessico machiavelliano. Egli mette a fuoco il ruolo nevralgico della coppia antinomica utile-giusto, quindi la ricorrenza al mendacio come elemento di rottura dell’unità di giusto e vero, nonché il tema della contravvenzione alle promesse, avendo in mente, tra gli altri, alcuni passi del XVIII capitolo del Principe, ma anche del VI libro delle Istorie fiorentine e del I libro dei Discorsi.

In tale percorso di ricerca, De Mattei si preoccupa principalmente di rinvenire nel pensiero politico classico, e poi nella cultura civile umanistica, le prime tracce dell’infrazione del rapporto fra utile e giusto, che prefigurerebbe addirittura un machiavellismo in assenza di Machiavelli. Nella tradizione politica greca e latina, secondo lo studioso, sarebbe già possibile rilevare le evoluzioni interne a questa dialettica; la centralità del concetto platonico di giustizia apparirebbe minacciata dall’«istanza leggittimatrice dell’autonomia dell’utile»[14], così come la tolleranza verso la menzogna adoperata con i nemici sarebbe presente anche nella Repubblica di Platone, luogo concettuale della giustizia.[15] La possibilità di ridimensionare il metro assoluto del giusto, quando intervenga l’argomento dell’interesse dello Stato, affiorerebbe dunque già nella cultura politica greca, per poi diventare oggetto di un’approfondita riflessione nel Cicerone del De officiis.

L’articolo Politica e morale prima di Machiavelli[16] rappresenta un importante punto di esordio critico intorno alla genesi di una modernità costituitasi gradualmente, almeno a partire dalla tradizione umanistica, muovendo dalla sempre più difficile convivenza fra politica e morale. In questo scenario, nel quale il magistero di Cicerone trova ancora accoglienza e il principio dell’utile è temperato dalla lezione del neoplatonismo, si assiste al sacrificio dell’onesto per le «ragioni della patria» e della religione nel De oboedientia di Giovanni Pontano, o si valorizza il «lato utilitario» del governo, piuttosto che quello etico, nei Doveri del Principe di Diomede Carafa, dove affiora «un caratteristico anticipo del Machiavelli»[17]. E per raccogliere maggiori segnali di questo genere di violazione nel tessuto morale della politica medievale, ancora non raggiunta dall’urto moderno fra etica e politica, De Mattei si richiama al giurista Bartolo da Sassoferrato, considerato un anticipatore di Machiavelli, in quanto aveva asserito «la piena legalità dell’operato del principe, allorché uccide i fratelli e bandisce gli eminenti personaggi ex iusta causa»[18].

In una prima fase della ricerca sul premachiavellismo nella politica umanistica, De Mattei ha dunque già individuato il problema fondamentale relativo all’eredità di Machiavelli o di un modus operandi della politica invalso in esperienze e culture precedenti, e rappresentato dalla «superiore moralità dello stato in cui si presume assommarsi l’interesse pubblico dei cittadini»[19].

In questi studi, maturati fra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio del decennio successivo, l’analisi en politique dei testi classici e umanistici di De Mattei è integrata con quella sulla rilevanza delle culture del platonismo e dell’aristotelismo nella tradizione politica secentesca. L’articolato percorso di ricerca lascia comunque emergere un’idea che circola con coerenza: la preminenza autorevole di Aristotele, favorita dalla ricezione cinquecentesca del pensiero politico dello Stagirita, attesta un primato del realismo politico che si sposa bene con la lezione di Machiavelli e contrasta con la garanzia del buon governo, ispirato ai principi platonici di giustizia e sapienza. Se, dunque, per De Mattei la «tendenza del tempo è manifestamente aristotelica»[20], e l’egemonia culturale di quel modello va giustificata come «rappresentazione dell’umana congregazione […] fuori da eventuali giudizi di valore etici»[21], è possibile istituire un nesso fra questa nuova piattaforma dottrinale e il machiavellismo, divenuto strumento privilegiato per definire la vita politica in termini di «meccanico dinamismo»:

“[…] il machiavellismo (e, d’altronde, anche lo stesso antimachiavellismo) del tempo non è che un aspetto, sia pure esasperato, di quell’aristotelismo permanente che si palesava condizione inevitabile di ogni politica pratica, in quanto tale: condizione che il Segretario Fiorentino aveva prospettato con scoperta crudezza, ma che, una volta accettata in minima parte, non poteva più essere evitata, sia pure con tutti i crismi del caso e del tempo, sia pure con le più oneste intenzioni e pregiudiziali delle generazioni postridentine”.[22]

Lo studioso siciliano segue l’andamento di questo “cattivo” modo di essere della politica, privata dell’ethos e consegnata alla nuda effettività, trascorrendo dal premachiavellismo al machiavellismo, da un tempo che precede Machiavelli ad uno che ne distilla meticolosamente gli insegnamenti, pur tra “camuffamenti” e disconoscimenti causati dalla censura. In un vasto campo esegetico, poi divenuto il luogo del machiavellismo, egli individua alcuni maestri di questa grammatica della politica come Aristotele e taluni interpreti come l’umanista Giovanni Pontano o Agostino Nifo, la cui opera De regnandi peritia rappresenta il primo caso di plagio del Principe machiavelliano.

Giovanni Pontano torna in diversi articoli di De Mattei a esemplificare una scrittura politica già compromessa da accenti machiavelliani sia per quanto attiene all’infrazione del rapporto utile-giusto, sia per quanto riguarda la liceità del mendacio.[23]

L’umanista di Cerreto sarà autore importante per Machiavelli, come riconosciuto già da De Mattei[24] e largamente confermato da studi più recenti, che attestano la frequentazione machiavelliana del De Fortuna durante la stesura del Principe.[25] Nondimeno, rispetto alla tradizione quattrocentesca, che pur introduceva una nuova valutazione nella dinamica del rapporto utile-giusto, agli occhi di De Mattei, il Segretario Fiorentino diviene un punto di cesura fondamentale, poiché dalla separazione di politica e morale, presente nella sua opera, discende un prodigioso arsenale di tecniche in grado di fare del mendacio, dell’inganno e della scaltrezza un’arte di governo.[26]

Per verificare come si evolvesse politicamente la dinamica fra utile e giusto, quali elementi di novità portasse con sé la tradizione politica secentesca che aveva attraversato il terreno arato da Machiavelli, lo studioso siciliano, all’inizio degli anni Cinquanta, si impegna in una ricerca sulla storia del concetto di prudenza. Egli rileva come, fra Umanesimo e tardo Rinascimento, si fosse progressivamente affermato un indirizzo culturale che distraeva sempre più la prudenza dalla sapienza. Guardando ad un corredo di scritture politiche della seconda metà del XV secolo, dalle quali risulta una sicura familiarità con la dottrina aristotelica, egli mette a fuoco una nuova antropologia del politico. E così, nel De prudentia di Pontano distingue il profilo di un uomo nuovo, «realizzante la sua moralità nell’esperienza vissuta»[27], e nel De obedientia indugia sull’elemento dell’infrazione nel difficile rapporto fra prudenza e sapienza che accentua il carattere pratico e iper-realistico della prudenza, e finisce per allontanare quest’ultima da qualsiasi forma di conoscenza che ne moderasse la vocazione pragmatica, spinta finanche al mendacio.

De Mattei, dunque, ricorre al concetto di premachiavellismo proprio riferendosi al Pontano, per sottolineare il connotato straordinario del superamento della norma in vista del bene politico, e del primato dell’utile anteposto all’onesto.

Il trionfo della Prudenza – già affiorato nel lessico umanistico – si compie per De Mattei attraverso le culture politiche rinascimentali e i suoi numerosi interpreti, fino al Botero della Ragion di Stato, che mirano a costruire uno statuto morale di questa virtù pratica, per sanare il difetto di quella parte più speculativa e meno utile alla struttura razionale, “contrattuale”, delle nuove realtà costituite dagli Stati.

Machiavelli, per De Mattei, è sacerdote di quella «massima moralità religiosa»[28] rappresentata dallo Stato che domanda virtù laiche come la prudenza, in grado di riunire in sé ogni dispositivo funzionale alla sua conservazione. Inoltre, nel cercare uno spazio di sopravvivenza della sapienza fra le carte dei trattatisti di fine Cinquecento, lo studioso siciliano mette in discussione quel machiavellismo deteriore, nel quale la prudenza rivive in un sistema di disvalori, dalla frode alla dissimulazione. Egli, invece, guarda con favore al risarcimento della sapienza venuto dal Campanella, «antiaristotelico giurato»[29], risoluto oppositore di Machiavelli e dello spirito del machiavellismo, sebbene nel pensiero dello Stilese siano riconoscibili alcuni concetti machiavelliani. Tuttavia, la distanza dal Fiorentino si misura soprattutto nella tensione verso un mondo politico differente, animato dall’ossequio per i valori morali a fondamento dello Stato e dalla celebrazione di una dimensione spirituale dell’uomo[30].

De Mattei, pertanto, distingue un percorso tipico del pensiero politico italiano, nel quale la prudenza dal campo del premachiavellismo approda alle forme della vita civile nelle vesti della virtù politica, della ragion di Stato[31]. Pur rilevando una continua oscillazione fra prudenza e sapienza nella precettistica politica fra XVI e XVII secolo, egli riconosce che la prudenza ha assunto una vocazione e un linguaggio favorevole al primato dello Stato e delle sue ragioni. Il suo uso spregiudicato, per altro verso, va respinto qualora si identifichi con un machiavellismo destinato a sottrarre allo Stato il respiro universalistico che la tradizione politica controriformista intendeva difendere. 

I risultati di tale stagione di studi vengono raccolti e rielaborati nel già citato volume Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo che contiene un ulteriore saggio di approfondimento, intitolato Per la storia del premachiavellismo, pubblicato su rivista nel 1963.[32]

In questi lavori De Mattei affina la ricerca intorno alla definizione dei modi di essere del premachiavellismo, campo degli studi su Machiavelli al quale egli riconosce una piena autonomia[33]. Al rapporto fra giusto e utile, alla liceità del mendacio, si aggiungono il motivo della scelta dell’azione politica indipendente da valutazione etiche, e la contravvenzione alle promesse, ovvero la liceità dell’inosservanza dei patti. Il problema politico è ancora, evidentemente, impostato come problema morale che chiama in causa la capacità di decisione dell’uomo e la sua responsabilità. È il difetto di partecipazione emotiva e spirituale a penalizzare Machiavelli, «impassibile studioso di fenomenologia politica», interessato esclusivamente «alla rappresentazione obbiettiva di un evento nella sua nuda e ineluttabile realtà fenomenica, prescindendo da un soggettivo giudizio morale»[34].

Al principio della «superiore istanza della ragione politica»[35], come guida per stabilire l’opportunità e l’efficacia dell’azione, non corrisponde una stima del giusto e dell’ingiusto sul terreno politico. A Machiavelli e Guicciardini, che approvano l’indipendenza etica dell’interesse dello Stato, la sua stringente necessità, De Mattei, con le parole di Savonarola, oppone il primato della giustizia e la potenza del governo fondato sulle ragioni dello spirito.[36] Tuttavia, il paradigma del riconoscimento della natura di un’azione politica in base al raggiungimento del fine, la misura della sua efficacia, trovava altri fautori prima di Machiavelli. Con il Fiorentino, però, il riscontro della realtà effettuale e il conseguimento dell’utile diventano sostanza e alimento della politica moderna.

Una variante ulteriore al rapporto fra utile e giusto, in seno al premachiavellismo, attiene all’inosservanza dei patti. Si tratta di uno dei principali comportamenti del politico che identifica una sorta di machiavellismo prima di Machiavelli, poi stigmatizzato nel capitolo XVIII del Principe (Quomodo fides a principibus sit servanda).

La ricerca della genesi storica di questo tema, divenuto centrale nella critica antimachiavelliana, e ancora approfondito da De Mattei in un saggio del 1971, aveva già sollecitato la curiosità di autorevoli studiosi. Nel 1944 Benedetto Croce pubblica per i tipi di Laterza un libretto dal titolo Prima del Machiavelli. Una difesa di re Ferrante I di Napoli per il violato trattato di pace del 1486 col Papa. Croce muove dal testo di una difesa del re Ferrante I d’Aragona contro l’accusa che gli veniva imputata di aver violato il trattato di pace del 1486 stipulato con papa Innocenzo VIII.[37]

Nel suo libretto - conosciuto e citato da De Mattei proprio in riferimento al premachiavellismo[38] - il filosofo riporta le ragioni della difesa del Re, giudicata «insulsa», che argomenta e giustifica la contravvenzione alla promessa per le condizioni in cui essa fu assunta, sotto la minaccia del papa, e senza spazio di «libero arbitrio». A commento delle argomentazioni in difesa di Ferrante – impegnato nella repressione della congiura dei baroni – Croce affianca una riflessione sul gesto del re e lo riconduce ad una pratica politica poi assorbita nella grammatica machiavelliana:

“Ma la difesa o piuttosto il più serio giudizio che il pensiero storico è condotto ora a dare di quest’opera ha come premessa la scoperta che, contro la scienza medievale, Niccolò Machiavelli fece del concetto della politica: lui e non altri, perché, per quanto sparsi e vaghi accenni si siano andati racimolando presso altri scrittori, per quanto si sia detto che egli mise in formule la pratica universale del suo tempo (che era invece la pratica di tutti i tempi ed aspettava, e non riusciva a incontrarla, la mente che la teorizzasse), il Machiavelli fu il filosofo geniale il quale per primo colse e fermò quel principio fecondo”.[39]

La lettura in chiave moderna di quella vicenda storica consisteva nell’individuare, già nel XV secolo, le ragioni della scissione fra etica e politica ancora difficili da distinguere nella cultura medievale.  

Croce stabilisce così un legame fra un modello politico della tarda età umanistica e le suggestioni di Machiavelli, considerato l’autore in grado di rendere paradigmatica la «categoria della politica, asserita e definita per la prima volta nella sua purezza».[40]

Lo scenario aragonese, del resto, era all’attenzione di Croce, come di De Mattei, che nei suoi studi sull’Umanesimo indugia sulla ricorrenza di temi premachiavelliani proprio riferendosi ad autori attivi nel versante politico partenopeo della seconda metà del XV secolo. D’altro canto, il contesto storico napoletano era profondamente minato da una grande instabilità determinata dalle congiure baronali e dalla difficoltà per gli Aragonesi di organizzare un solido apparato di governo che fronteggiasse i nemici esterni e le tensioni intestine. In una simile congiuntura interviene un mutamento della figura dell’intellettuale, funzionario di corte, segretario di Stato, consigliere del Principe. Questi assume su di sé il dato della mutevolezza e instabilità della situazione politica, e privilegia il racconto dell’effettività, piuttosto che l’auspicio dell’esemplarità, per rendere leggibile una forma di sovranità dal sapore tacitiano, tardo imperiale.

Oltre a Croce, già lo storico Eberhard Gothein aveva descritto Ferrante d’Aragona così spregiudicato e simulatore nell’esercizio del potere, da aver «anticipato con le opere la teoria del Machiavelli»[41]. Lo stesso Ferrante, di cui Croce riporta la difesa, viene riconosciuto dunque, da una parte della storiografia, per aver sacrificato i suoi consiglieri Coppola e Petrucci, per aver mancato al giuramento con il papa, per il suo temperamento politico che lo fa apparire un tiranno[42].

De Mattei tornerà sul tema dell’inosservanza dei patti per farne uno dei segni distintivi di un modo di essere della politica come deroga dai principi etici e presupposto di un comportamento machiavellico. Lo studioso individua nel De beneficiis di Seneca la fonte dalla quale si ricava il principio secondo cui il mutamento dei rapporti di fatto svincolerebbe dall’obbligo del patto. La questione riguarda le eccezioni, più o meno gravi al principio de fide servanda nella tradizione classica e umanistica, le quali non dovettero essere estranee al Machiavelli che ricorda Alessandro VI, disinvolto nell’inosservanza dei patti. Ancora una volta il Fiorentino sembra limitarsi a ratificare un costume politico ampiamente invalso, arricchendo il campionario delle infrazioni, e rilevando la pericolosità della fede nociva all’interesse dello Stato. In tal senso, De Mattei chiarisce:

“Il Machiavelli, dunque, aveva soltanto espresso in termini scoperti ciò che la realtà vissuta già palesava. E ciò che gli scrittori del passato avevano accreditato essenzialmente in sede di vita morale […] veniva dal Machiavelli nettamente affermato proprio in questo più positivo terreno”.[43]

Il paradigma della scissione fra utile e giusto, fra etica e politica, assume molteplici sfumature dettate da contesti storici anche differenti; va rilevato che una composizione di questa dialettica si realizza nello Stato moderno, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, quando vita del singolo e vita dello Stato coincidono in una dimensione di valore civile, morale, politico. In questo spazio della statualità, Machiavelli incarna un grado elevato di consapevolezza dell’urto utile-giusto e della sua compensazione dentro la dimensione dello Stato, in quanto espressione di un bisogno storico di ordine politico. Qui interviene una saldatura fra Machiavelli e la modernità, dal momento che il logos politico del Fiorentino si pone come la più espressiva forma ordinamentale della modernità. Si tratta di una dolorosa composizione per De Mattei che pensa all’uomo come incarnazione dell’ordine morale, in grado di incidere sulla politica, e di offrire un contributo allo Stato in termini di valore, sottraendolo alla mutevolezza della storia.

Il conflitto fra utile e giusto rappresenta una chiave di lettura paradigmatica, oltretutto, per seguire lo sguardo critico di De Mattei e finanche il suo ripensamento del concetto moderno di libertà. Riducendo il divario fra la libertà degli antichi e quella dei moderni, alimentato da una lontana querelle, egli riconosce nel Cristianesimo il momento che ha determinato una cesura significativa sul tema di quella libertà, definita nostra, esito di una conquista spirituale del singolo, come si deduce dalle sue stesse parole:

“agli antichi fu estranea non questa o quella libertà, ma la nostra libertà, quel concetto (donde il cosciente esercizio) che si sviluppa col cristianesimo, si affina col giusnaturalismo, e trova poi la sua codificazione con l’elaborazione dei diritti subiettivi”.[44]

La centralità della polemica di De Mattei circa la dissociazione fra politica e morale si riflette persino nella critica dell’individualismo di stampo liberale, alieno da ogni forma di solidarismo e di potenzialità di costruzione della collettività, che rappresenta, ai suoi occhi, l’esito ottocentesco della Rivoluzione francese. Questa cesura storica porta con sé la deriva di una forma di democrazia che ha dimenticato l’uomo, «una democrazia incapace di approfondire la sua coscienza, di trascendere i fatti materiali, di mettere in relazione gli svolgimenti economici e sociali coi corrispondenti valori etici»[45].

La dialettica utile-giusto diviene un argomento così decisivo per spiegare la scissione fra l’organizzazione statale e l’autonomia del giudizio individuale sui valori, da lasciare numerose tracce in un tempo successivo, nel quale De Mattei si spinge sul rapporto fra «coscienza etica del singolo e legge dello Stato».[46] Torna ancora la resistenza nell’accettare l’idea della libertà interiore dell’individuo come un principio assoluto, non assorbito nella dinamica della formazione dello Stato. Per De Mattei, la libertà come responsabilità ed etica del soggetto particolare deve essere assunta nel processo di composizione della collettività statuale e integrata nella sua architettura istituzionale e giuridica.[47]

 

 

3. CONCLUSIONI

Nella ragion di Stato, nell’utopia, nell’evoluzione della democrazia italiana postunitaria, nell’analisi del pensiero politico fra Cinque e Seicento sono state riconosciute alcune linee di ricerca fondamentali dello studioso Rodolfo De Mattei;[48] tuttavia, a questi grandi nuclei tematici potrebbe aggiungersi quello della critica a Machiavelli incentrata sull’analisi di forme e linguaggi politici fra premachiavellismo e antimachiavellismo. È un ambito nel quale possono essere inclusi molteplici contributi di ricerca su culture e autori fra XV e XVII secolo, e dove già emerge la preoccupazione di raggiungere un’armonia tra politica e morale, almeno sotto il profilo della proposta dell’assegnazione di un valore civile a questo binomio, declinato in chiave universalistica e non soltanto storica.

De Mattei individua in assenza di Machiavelli un premachiavellismo che è indizio della cattiva politica, è la presenza del morbo che non consente di vedere nella politica stessa una sintesi costituita dalla sfera pratica ed etica dell’uomo, e incarna invece la dimensione dello Stato privata dell’humanitas in quanto testimonianza di eticità e di vita dello spirito.

Machiavelli rappresenta l’hic et nunc della politica, un’immediatezza alla quale De Mattei antepone la ricerca di valori universalistici, di paradigmi in grado di comprendere l’uomo in una dimensione più alta, orientando il suo comportamento in senso morale all’interno di una sfera comunitaria, immune dal rischio dell’isolamento. È questa fiducia nella possibilità di costruire ideali politici migliori che alimenta il suo interesse verso le teorie utopistiche (Campanella, Zuccolo, Harrington). Estremamente significativo della valutazione dell’utopia come processo deontologico concreto – che investa prima l’uomo e poi le istituzioni – è quanto lo studioso sottolinea con vigore, scrivendo:

“[…] e, del resto, a che scopo affondarsi nello studio delle discipline politiche, se non per ricavarne fruttificazioni pel futuro? […] giacché, a volte, la libera immaginazione anticipatrice può esercitare una singolare influenza stimolante sugli spiriti percettivi in fase di ansia costruttiva, cioè fantastica, allorché la politica si palesa maggiormente come arte e come «poiesis» cioè come un «fare», un fare del nuovo e di meglio”.[49]

Anche nei modi della valorizzazione dell’utopia politica si può misurare la distanza di De Mattei da Machiavelli, specie se si pensi che quell’opposizione non è riducibile all’antinomia utopismo-realismo, ma è un confronto che parte dall’uomo per celebrarne la potenzialità al bene comune, contro l’irriducibile necessità dell’azione politica schiacciata sul contingente e senza vocazione al futuro.

Nelle scritture dello studioso siciliano circola il monito dell’utopismo, non di un modello dell’evasione, ma di un’utopia materiale e razionale, saldamente radicata nella storia, inserita in una logica della socialità che intende disconoscere la realtà effettuale di Machiavelli e il suo statuto della finitezza. Per De Mattei, infatti, l’utopia nel suo essere «perenne aspirazione umana» è soprattutto «una preziosa testimonianza della confidenza dell’uomo nella sua virtù attiva, ritenuta capace di ricreare il mondo»[50].

Machiavelli, presente capillarmente negli studi del Siciliano, rappresenta la politica che ha rinunciato a raccontare la parte migliore dell’uomo, la sua dimensione spirituale. Egli tematizza questa frattura soprattutto affrontando, in diversi momenti, e da diverse angolazioni, il rapporto fra utile e giusto, a partire dai modi nei quali si manifesta la dialettica fra i due termini nella tarda antichità. La sua indagine mira sempre a ricostruire la genesi storica dei concetti e a registrarne le più significative evoluzioni.

Per De Mattei, Machiavelli è l’autore che autorizza e legittima l’autonomia dell’utile, e così incarna la politica negatrice dell’humanitas. E nel rigetto di questo schema proprio del linguaggio machiavelliano, interviene anche la valutazione di un diverso modo di pensare la storia e il rapporto individuo-Stato, nel faticoso tentativo di fare dell’esperienza politica «una condizione e uno specchio del mondo etico»[51].

Leggere Machiavelli attraverso il filtro di una domanda “assoluta” di risarcimento morale – come quella di De Mattei – comporta, tuttavia, il problema di assegnare il giusto valore ai luoghi machiavelliani nei quali viene sollevata, in modo estremamente articolato, la questione del rapporto fra etica e politica, e dove possono apparire alterati i confini fra bene e male nel giudizio di un’azione politica tradizionalmente ritenuta cattiva. Non si dimentichi in tal senso l’espressione, o forse il monito, «se del male è lecito dire bene»» che compare nel capitolo VIII del Principe e i passi di quest’opera nella quale, accanto alla possibilità della deroga alla regola morale astratta, per il sovrano esiste il momento della ricerca del favore del popolo e il bisogno di evitarne il biasimo, agendo comunque in funzione del compimento dello scopo politico.


 

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[1] Su Rodolfo De Mattei, lo studio più completo è rappresentato dalla biografia intellettuale di Luciano Russi. Cf. Luciano Russi, Il passato del presente. Rodolfo De Mattei e la storia delle dottrine politiche in Italia, Edizioni Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2005.

[2] La centralità di Machiavelli è dovuta anche alla predilezione dello studioso per le culture politiche tardo rinascimentali. È lo stesso De Mattei a rivendicare la necessità di misurarsi con Machiavelli nel campo dei suoi studi: «Non sembra possa revocarsi in dubbio che l’apparizione degli scritti del Machiavelli costituisca una sorta di dies a quo dei più significativi svolgimenti di pensiero politico avvenuti, prevalentemente in Italia, dalla seconda metà (all’incirca) del Cinquecento in poi. Si può dire, infatti, che, tra il secolo XVI e il secolo XVII, non esista da noi opera politica di qualche rilievo che non palesi un suo rapporto, esplicito o implicito, essenziale o incidentale, con quella del Segretario fiorentino. La stessa «campagna» antimachiavellica, sviluppatasi tra il Cinque e il Seicento anche oltr’alpe, presuppone la costante presenza e l’imperiosa suggestione del permanente avversario.» Rodolfo De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Sansoni, Firenze, 1969, p. VII. 

[3] Luciano Russi ha ben descritto la propensione dello studioso siciliano verso campi di ricerca estremamente circoscritti, e la tensione all’indagine scientifica intesa come percorso di progressivo e incessante approfondimento: «I suoi libri sono stati sempre pensati e pubblicati come raccolte di “frammenti” […] a testimonianza di un’autentica vocazione al non finito, al non concluso. Una scelta, quella di non consegnare i propri contributi e le proprie analisi ad una forma cristallizzata, che certamente è un esempio di modestia, ma che è anche una forte opzione metodologica: nel senso dell’impossibilità di chiudere le ricerche in uno scritto compiuto». Luciano Russi, “Il pioniere, la vena letteraria e l’operosità scientifica”, Trimestre, Vol. XXVI, No. 2-3, 1993, p. 174.

[4] Rinviando ai titoli che compongono la ricca bibliografia dematteiana (cf. Luciano RUSSI, Bibliografia dematteiana, Idem, Il passato del presente…cit., pp. 133-142), in questa sede si ricordano, tra gli altri, Rodolfo De Mattei, Il problema della “ragion di Stato” nell’età della Controriforma, Ricciardi, Milano & Napoli, 1979; Idem, Il pensiero politico italiano nell’età della Controriforma, 2 vol., Ricciardi, Milano & Napoli, 1982-84.

[5] Sul tema della ricezione di Machiavelli nel Fascismo insiste una letteratura critica estremamente copiosa. In questa sede, mi limito a rinviare a: Gaetano Calabrò, Machiavelli in Italia tra le due guerre. Echi di un dibattito, Nella sede dell’Istituto per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005; Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, Guida, Napoli, 2005; Luigi Marco Bassani, Corrado VIVANTI (a cura di), Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Giuffrè, Milano, 2006; Paolo CARTA, Xavier Tabet (a cura di), Machiavelli nel XIX e XX secolo-Machiavel aux/ème et XX/ème siècle, Cedam, Padova 2007.

[6] Rodolfo DE MATTEI, “Sulla storia del premachiavellismo”, Storia e politica, Vol. II, No. 2, 1963, p. 193.

[7] Benedetto Croce, Storia della Età Barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale, Laterza, Bari, 1953, p. 80.

[8] Cf. Rodolfo DE MATTEI, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo…cit., p. 263.

[9] Rodolfo De Mattei, “Distinzioni in sede di sede di antimachiavellismo”, Il Pensiero politico, Vol. II, No. 3, 1969, p. 372.

[10] Idem, Il pensiero politico di Scipione Ammirato. Con discorsi inediti, Giuffrè, Milano, 1963, p. 117.

[11] Idem, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo…cit., p. 123.

[12] Ibidem, p. 125.

[13] Già da molti anni si moltiplicano le ricerche su autori e contesti della letteratura politica umanistica che testimoniano una significativa relazione con la successiva riflessione machiavelliana. Si tratta di studi saldamente ancorati alla storia e alla filologia che comprendono, implicitamente, il capitolo delle indagini sulla formazione di Machiavelli, nell’intenzione di ricostruire il corredo delle sue letture e ripercorrere gli stadi della sua formazione. In questa circostanza, tra gli altri lavori su questi temi, si rinvia a Gennaro SASSO, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Ricciardi, Milano & Napoli, 1987-1997; Francesco Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno (Firenze-Pisa, 27-30 ottobre 1997), Salerno, Roma, 1998, pp. 81-115; Francesco Bausi, “Politica e poesia. Ancora sulla cultura di Machiavelli”, Intersezioni, Vol. 22, No. 3, 2002, pp. 377-393; Davide Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Laterza, Roma-Bari, 2005; Guido Maria Cappelli, “Petrarca e l’umanesimo politico del Quattrocento”, Verbum, Vol. VII, No. I, 2005, pp. 153-175; Giacomo Ferraù, Petrarca, la politica, la storia, Centro di Studi Umanistici, Messina 2006; Gabriele Carletti (a cura di), Prima di Machiavelli. Itinerari e linguaggi della politica tra il XIV e il XVI secolo, Edizione Scientifiche Abruzzesi, Pescara, 2007; Claudio Finzi, Il pensiero politico dell’umanesimo: gli uomini, le città, le idee, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.

[14] Rodolfo DE MATTEI, “Per la storia del premachiavellismo”, Storia e politica, Vol. II, No. 2, 1963, p. 182.

[15] Ibidem, pp. 193-194.

[16] Idem, Politica e morale prima di Machiavelli, Giuntina, Firenze 1944, pp. 5-16, poi in Giornale critico della filosofia italiana, Vol. XXIX,

No. I, 1950, pp. 56-67.

[17] Ibidem, p. 66.

[18] Ibidem, p. 67.

[19] Ibidem, p. 63. Negli stessi anni in cui De Mattei si dedica a questi studi, il filosofo del diritto Goffredo Quadri torna sul rapporto fra utile e giusto, chiamando ancora in causa il concetto di premachiavellismo. Se già nella prima edizione del suo lavoro Niccolò Machiavelli e la costruzione politica della coscienza morale (1947) veniva affrontato il delicato rapporto fra l’efficacia dell’azione politica e il giudizio-valore della coscienza soggettiva, in alcuni saggi successivi Quadri adotta il premachiavellismo per leggere avvenimenti storici come il Concilio di Costanza, o comportamenti di uomini politici quattrocenteschi. I contributi di Quadri, nei quali più insistito è il riferimento al premachiavellismo, e addirittura ad un precoce antimachiavellismo presente nel Morgante Maggiore di Luigi Pulci, sono: “Antimachiavellismo prima di Machiavelli. Luigi Pulci e l’anarchismo cavalleresco”, Rivista internazionale di filosofia del diritto, Vol. XXXII, No. 1, 1955, pp. 79-96 e “Ancora sul “Premachiavellismo” e “Preantimachiavellismo”. Discussioni al Concilio di Costanza”, Studi senesi, Vol. LXXVIII, No. 1, 1966, pp. 409-430.

[20] Rodolfo De Mattei, “Propaggini di platonismo e trionfo dell’aristotelismo nel pensiero politico italiano del Seicento”, Maia, Vol. III, No. II, 1950, p. 112.

[21] Idem, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo…cit., p. 251.

[22] Idem, Propaggini di platonismo…cit., p. 115.

[23] In riferimento a Pontano, infatti, De Mattei rileva: «D’altronde, il Pontano, discorrendo dei costumi dei filosofi, dirà senza esitazione di non venerare affatto certa virtù aspra ed orrida che non soffre deviazioni, e di preferire quella elastica virtù che ci conceda eventuali trasgressioni […]. Offrirà talora al Principe suggerimenti pratici che sanno già di machiavellico: come il passar sopra ad alcune mancanze degne di castigo, fingendo di ignorarle o differendone a tempo debito la punizione.» Idem, “Per la storia del premachiavellismo”…cit., p. 192.

[24] Ibidem, p. 193.

[25] Cf. Giovanni Pontano, De Fortuna, a cura di Francesco Tateo, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2012.

[26] Rodolfo De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismocit., p. 193.

[27] Idem, Sapienza e prudenza nel pensiero politico italiano dall’Umanesimo al secolo XVII, in Enrico CASTELLI (a cura di), Umanesimo e Scienza politica, Marzorati, Milano, 1951, p. 131.

[28] Idem, Sapienza e prudenza nel pensiero politico italiano…cit., p. 132.

[29] Ibidem, p. 140.

[30] Sullo svolgimento di questi temi nelle prime ricerche di De Mattei su Tommaso Campanella, si rinvia a Rodolfo DE MATTEI, La politica di Campanella, Anonima Romana Editoriale, Roma, 1927.

[31] Cf. Idem, Sapienza e prudenza nel pensiero politico italiano…cit., p. 141.

[32] Cf. Rodolfo De Mattei, “Per la storia del premachiavellismo…cit.”, pp. 183-207.

[33] Idem, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo...cit., pp. VII-VIII.

[34] Ibidem, pp. 63-64.

[35] Idem, Per la storia del premachiavellismo…cit., p. 206.

[36] Ibidem, pp. 203-205. Savonarola, nella lettura di De Mattei, rappresenta un efficace contraltare morale a Machiavelli. La sua fiducia nella possibilità di una renovatio della politica, che muovesse principalmente dall’uomo, per toccare poi la vita delle istituzioni, viene sottolineata con forza: «L’inconfondibile messaggio del Savonarola consiste in un alto e disperato appello a quel mondo morale che dovrà essere archetipo e generatore del mondo politico; in un richiamo a quel «dover essere», cui gli uomini dovranno affissarsi per diventar sul serio buoni cittadini. Su questo punto, nettissimo è il distacco del Savonarola dal Machiavelli, schernitore d’ogni tentativo mirante a migliorare la creta umana, giudicata inguaribilmente inferma; e negatore d’ogni «republica immaginaria» cioè d’ogni mondo migliore.» Idem, Istanze politiche e sociali nel Savonarola, in Studi in onore di G. Zingali, vol. III, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 285-316, poi Idem, Aspetti di storia del pensiero politico, vol. I: Dall’antichità classica al sec. XV, Giuffrè, Milano, 1980, p. 309.

[37] Benedetto Croce, Prima del Machiavelli. Una difesa di re Ferrante I di Napoli per il violato trattato di pace del 1486 col Papa, Laterza, Bari, 1944.

[38] Rodolfo DE MATTEI, Politica e morale prima di Machiavelli…cit., p. 64.

[39] Benedetto Croce, Prima del Machiavelli…cit., p. 31.

[40] Ibidem, p. 35.

[41] Everardo GOTHEIN, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, a cura di Tommaso Persico, Sansoni, Firenze 1915, p. 238.

[42] A proposito dell’imprevedibilità del re Ferrante, scrive ancora Gothein: «La fredda valutazione del fine dominò in tutte le risoluzioni di Ferrante, anche fin dove essa non era penetrabile ai suoi consiglieri, giacché innanzi a costoro egli teneva segrete le deliberazioni decisive, i colpi improvvisi di violenza. In tali momenti egli sembrava anche ai suoi confidenti, come il Pontano, una natura diabolica cui si doveva lasciar fare.» Ivi.

[43] Rodolfo DE MATTEI, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo…cit., p. 37.

[44] Rodolfo DE MATTEI, “La libertà presso i Greci e presso i moderni”, Giornale critico della filosofia italiana, Vol. XXVII, No. II, 1948, p. 165.

[45] Idem, “La crisi spirituale della democrazia”, Gerarchia, Vol. II, No. 5, 1923, p. 962.

[46] Idem, L’obbedienza di Socrate nelle recenti interpretazioni, in Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, vol. II, Bologna, Zanichelli, 1953, pp. 25-43, poi Idem, Aspetti di storia del pensiero politico…cit., p. 106.

[47] Cf. Ivi.

[48] Cf. Diana Thermes, “Un pioniere della Storia delle dottrine politiche”, Rassegna siciliana di storia e cultura, Vol. X, No. 29, 2006, p. 10.

[49] Rodolfo DE MATTEI, Prefazione, in James Harrington, Oceana, Colombo, Roma 1947, p. 9, p. 31.

[50] Idem, Antologia degli utopisti e dei riformatori sociali, Edizioni Ricerche, Roma, 1960, p. 8. 

[51] Idem, “L’obbedienza di Socrate nelle recenti interpretazioni…cit.”, p. 106.